Il 28 maggio 2023, il Dicastero vaticano per la Comunicazione ha pubblicato una Riflessione pastorale sul coinvolgimento con i social media, dal titolo Verso una piena presenza. Attraverso una serie di post, mettiamo in evidenza gli aspetti più peculiari. Ecco il post [10], relativo ai nn. 64-76.
A questo punto, il documento si interroga sulla comunicazione cristiana: «Qual è la strategia più efficace per raggiungere più utenti-persone-anime? Quale strumento rende il mio contenuto più attraente? Quale stile funziona meglio? Sebbene queste domande siano utili, dobbiamo ricordare sempre che la comunicazione non è semplicemente una “strategia”. È molto di più. Un vero comunicatore dà tutto, dà tutto se stesso/se stessa. Comunichiamo con l’anima e con il corpo, con la mente, con il cuore, con le mani, con tutto».
Inevitabile, per un cristiano, il riferimento all’Eucaristia: «Condividendo il Pane della Vita, impariamo uno “stile di condivisione” da Colui che ci ha amati e ha dato se stesso per noi (cfr Galati 2,20). Questo stile si riflette in tre atteggiamenti – “vicinanza, compassione e tenerezza” – che Papa Francesco definisce come tratti distintivi dello stile di Dio. Gesù stesso, nella sua cena di commiato, ci ha assicurato che il segno distintivo dei suoi discepoli sarebbe stato quello di amarsi gli uni gli altri come Lui li ha amati. Da questo tutti sono in grado di riconoscere una comunità cristiana (cfr Giovanni 13,34-35)».
Ebbene, questo “stile” di Dio come può essere reso sui social media?
«Prima di tutto, dobbiamo ricordare che tutto ciò che condividiamo nei nostri post, commenti e like, attraverso parole pronunciate o scritte, con filmati o immagini animate, deve essere in linea con lo stile che impariamo da Cristo, che ha trasmesso il suo messaggio non solo con le parole, ma con tutto il suo stile di vita, rivelando che la comunicazione, al suo livello più profondo, è il dono di sé nell’amore. Pertanto, il come diciamo qualcosa è importante esattamente come il che cosa diciamo. La creatività consiste nell’assicurarsi che il come corrisponda al che cosa. In altre parole, possiamo comunicare bene solo se “amiamo bene”».
«Per comunicare la verità, dobbiamo innanzitutto accertarci di trasmettere informazioni veritiere; non solo nel creare i contenuti, ma anche nel condividerli. […] Nel contesto della “post-verità” e delle “fake news”, Gesù Cristo come “via, verità e vita” (Giovanni 14,6) rappresenta il principio della nostra comunione con Dio e tra di noi. […].
Per questo motivo, la seconda cosa da ricordare è che un messaggio è più facilmente credibile quando chi lo comunica appartiene a una comunità. […] Il fatto che i social media facilitino le iniziative individuali nella produzione di contenuti può sembrare un’opportunità preziosa, ma può rivelarsi problematico quando le attività individuali sono portate avanti secondo il capriccio e non riflettono l’obiettivo e la prospettiva generale della comunità ecclesiale. […] Lavorare insieme come squadra, fare spazio a talenti, provenienze, capacità e ritmi diversi, co-creare bellezza in una “creatività sinfonica” è in realtà la più bella testimonianza che siamo davvero figli di Dio, riscattati dall’essere preoccupati solo di noi stessi e aperti all’incontro con gli altri».
A livello comunicativo, poi, il documento suggerisce il ricorso alle storie. «Le buone storie catturano l’attenzione e coinvolgono l’immaginazione. Rivelano e danno ospitalità alla verità. Le storie ci offrono un quadro interpretativo per comprendere il mondo e per rispondere alle nostre domande più profonde. […] Lo storytelling ha acquisito una rinnovata importanza nella cultura digitale grazie al potere unico delle storie di catturare la nostra attenzione e parlarci direttamente; spesso offrono anche un contesto più completo per la comunicazione rispetto a quello che consentono post o tweet concisi… Le storie offrono una struttura, un modo di dare un senso all’esperienza digitale».
«Un buon motivo per raccontare una storia è rispondere a chi mette in dubbio il nostro messaggio o la nostra missione. […] Come fece Gesù con la storia del buon Samaritano. Invece di discutere con il dottore della legge su chi dobbiamo considerare il nostro prossimo e chi possiamo ignorare o addirittura odiare, Gesù ha semplicemente raccontato una storia. Da maestro narratore, Gesù non mette il dottore della legge nei panni del Samaritano, ma in quelli dell’uomo ferito. Per scoprire chi è il suo prossimo, deve prima capire di essere nei panni dell’uomo ferito e che un altro ha avuto compassione di lui. Solo quando il dottore della legge lo scopre e sperimenta sulla propria pelle la cura del Samaritano, può trarre conclusioni sulla propria vita e fare sua la storia. Lo stesso dottore della legge è l’uomo caduto nelle mani dei briganti e il Samaritano che gli si avvicina è Gesù. Ognuno di noi ascoltatori di questa storia è l’uomo ferito che giace lì. E per ognuno di noi il Samaritano è Gesù».
Insieme alle storie, un ruolo particolare lo ricoprono gli influencer. «Le persone cercano qualcuno che possa dare orientamento e speranza; sono affamate di guida morale e spirituale, ma spesso non la trovano nei luoghi tradizionali. È ormai comune rivolgersi agli “influencer”, individui che… riescono a ispirare e motivare gli altri con le loro idee o esperienze. […] Tutti noi dovremmo prendere sul serio la nostra “influenza”. Non ci sono solo macro-influencer con un grande pubblico, ma anche micro-influencer. Ogni cristiano è un micro-influencer. Ogni cristiano dovrebbe essere consapevole della propria potenziale influenza, a prescindere dal numero di persone che lo/la seguono».
Ancora una volta, il documento sottolinea l’importanza della comunità. «È urgente imparare ad agire insieme, come comunità e non come individui. Non tanto come “singoli influencer”, ma come “tessitori di comunione”: mettendo in comune i nostri talenti e le nostre capacità, condividendo conoscenze e suggerimenti. Per questo Gesù ha inviato i discepoli “a due a due” (cfr Marco 6,7), perché camminando insieme possiamo rivelare, anche sui social media, il volto sinodale della Chiesa… Come cristiani, la comunione è parte del nostro “DNA”. In questo modo, lo Spirito Santo ci rende capaci di aprire i nostri cuori agli altri e di abbracciare la nostra appartenenza a una fratellanza universale».