Giubilei Paolini: festa del “per sempre” sull’esempio di Paolo

Un giorno, Gesù si è rivolto a ciascuno di noi e ci ha chiesto, personalmente, come ai primi discepoli: «Vieni! Seguimi!» (Marco 10,21). E noi gli abbiamo risposto “sì”. La celebrazione dei Giubilei Paolini è la testimonianza di questo “sì”, prolungato nel tempo, in risposta all’amore incondizionato di Dio, che ci dice: «Ti ho amato di un amore eterno, per questo continuo a esserti fedele (Geremia 31,3).

I Giubilei che celebriamo sono la festa del “per sempre”. Nella cultura del provvisorio e della velocità che privilegia il tempo presente, tipici della nostra epoca, noi confermiamo il “per sempre”, proprio dell’amore.

In questa occasione, ringraziamo il Signore per la testimonianza di tante persone consacrate, nostri confratelli, che hanno risposto all’amore fedele di Cristo.

E la loro testimonianza diventa per ciascuno di noi motivo di riflessione e approfondimento.

Come si traduce questo amore nella vita di ogni giorno?

Lo possiamo vedere in san Paolo, che don Giacomo Alberione ha indicato come nostro padre e ispiratore. «La Famiglia Paolina è suscitata da san Paolo per continuare la sua opera; è san Paolo, vivo, ma che oggi è composto di tanti membri. Non abbiamo eletto noi san Paolo; è lui che ha eletto e chiamato noi. Vuole che facciamo quello che egli farebbe se oggi vivesse. E se vivesse, che cosa farebbe?» (Alle Figlie di San Paolo, 1954, pp. 144-145).

San Paolo avrebbe la risposta pronta: «Per me vivere è Cristo» (Filippesi 1,21), fino al punto che «non sono più io che vivo, è Cristo che vive in me» (Galati 2,20). Ed ecco l’affermazione di don Alberione: «Se San Paolo vivesse, continuerebbe ad ardere di quella duplice fiamma, di un medesimo incendio, lo zelo per Dio ed il suo Cristo, e per tutti gli uomini di ogni paese. E per farsi sentire salirebbe sui pulpiti più elevati e moltiplicherebbe la sua parola con i mezzi del progresso: stampa, cine, radio e televisione… per ottenere il consenso dell’intelletto, persuadere, convertire, unire a Cristo» (Anima e corpo per il Vangelo, n. 37).

A don Alberione san Paolo «parve veramente l’Apostolo: dunque ogni apostolo ed ogni apostolato potevano prendere da Lui» (Abundantes Divitiae gratiae suae, 1953, n. 64). Di qui la domanda: cosa significa veramente essere Paolini?

In genere siamo visti come persone consacrate impegnate nel “fare”.

Nel concreto: diffondere il Vangelo e i valori cristiani con tutti i mezzi che la tecnologia mette a disposizione.

Ma, per noi Paolini, diventa imprescindibile sapere da dove trae origine questo “fare”. Don Alberione era affascinato dalla intraprendenza apostolica dell’apostolo Paolo. E si chiedeva: «Perché san Paolo è così grande? Perché compì tante opere meravigliose? Perché anno per anno la sua dottrina, il suo apostolato, la sua missione nella Chiesa di Gesù Cristo vengono sempre più conosciuti, ammirati e celebrati? … Il perché va ricercato nella sua vita interiore. È qui il segreto» (Alle Figlie di San Paolo, 1933).

È sufficiente vedere come l’Apostolo si descrive – «Paolo, apostolo di Gesù Cristo» – per definire il nostro essere Paolini.

“Apostolo di…” significa: apostolo “che appartiene a Cristo”, “che parla a nome di Cristo” e “che parla di Cristo”.

Apostolo di…”, cioè apostolo che appartiene a Cristo. Paolo vive solo per il Signore. E si sente talmente unito a Gesù da affermare: “non vivo più io, ma Cristo vive in me” (Galati 2,20). Dire Paolo è dire Gesù Cristo. Essere Paolini allora non significa altro che essere “in lui”, cioè in Cristo. Oggi possiamo sperimentare questa appartenenza ricordando le parole di Gesù: «Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue rimane in me e io in lui» (Giovanni 6,56). Quella che Gesù offre è una esperienza definitiva, completa, e dialogica: al suo restare in noi, deve corrispondere il nostro restare in lui. Allora, per vivere in pienezza, il Paolino non può fare a meno dell’Eucaristia, celebrata e adorata, deve sentire fame dell’Eucaristia. Da questo nutrimento quotidiano deriva lo svolgimento del nostro apostolato. Per far conoscere Gesù e il suo messaggio, occorre avere con Lui un rapporto personale, coltivare l’amicizia con Lui giorno dopo giorno. Il dramma, che spesso viene ignorato, è proprio il non sentire questa fame.

Apostolo di…”, cioè apostolo che parla a nome di Cristo. È la prima conseguenza dell’essere uniti a Gesù. Apostolo – letteralmente – significa: inviato. L’evangelizzazione è il compito dato a Paolo. «Cristo mi ha mandato… ad annunciare il Vangelo» (1 Corinzi 1,17); «È un incarico che mi è stato affidato» (1 Corinzi 9,17); «Sono stato fatto messaggero e apostolo» (1 Timoteo 2,7); «Sono stato costituito messaggero, apostolo e maestro» (2 Timoteo 1,11). Il fatto di aver ricevuto questo incarico, vuol dire che «annunciare il Vangelo non è per me un vanto, perché è una necessità che mi si impone: guai a me se non annuncio il Vangelo!» (1 Corinzi 9,16). L’iniziativa è dunque di Cristo, alla quale Paolo – e noi come Paolini – si sente totalmente obbligato. Gesù gli ha affidato una missione da compiere in suo nome; di conseguenza, ogni interesse personale va in secondo piano.

Inviato ad annunciare il Vangelo, Paolo si fa “vicino”, “prossimo” delle persone: «Mi sono fatto servo di tutti per guadagnarne il maggior numero: mi sono fatto come Giudeo per i Giudei, per guadagnare i Giudei. Per coloro che sono sotto la Legge – pur non essendo io sotto la Legge – mi sono fatto come uno che è sotto la Legge, allo scopo di guadagnare coloro che sono sotto la Legge. Per coloro che non hanno Legge – pur non essendo io senza la legge di Dio, anzi essendo nella legge di Cristo – mi sono fatto come uno che è senza Legge, allo scopo di guadagnare coloro che sono senza Legge. Mi sono fatto debole per i deboli, per guadagnare i deboli; mi sono fatto tutto per tutti, per salvare a ogni costo qualcuno» (1 Corinzi 9,19-22).

Consapevole di essere “inviato”, il Paolino si fa “prossimo” per comprendere la vita dei cristiani e dei non cristiani, in modo da usare il loro stesso linguaggio e far conoscere così la buona notizia di Cristo. L’invio e l’esigenza di prossimità diventano zelo per i popoli. Come lo è stato per Paolo e per don Alberione.

«Dove cammina, come cammina, verso quale meta cammina questa umanità che si rinnova sempre sulla faccia della terra?», si chiedeva don Alberione, e continuava: «L’umanità è come un grande fiume che va a gettarsi nell’eternità. Sarà salva? Sarà perduta per sempre? […] Pensiamo ai tre miliardi di uomini viventi e alle anime che ogni giorno passano all’eternità: che cosa sarà di queste anime? Se avete cuore veramente paolino… dovete imitare S. Paolo. Quanti viaggi ha fatto, quanti passi… […] Egli aveva un cuore così largo che pensava a tutte le anime. Avere questo cuore paolino!» (Alle Figlie di San Paolo, 1961).

Ebbene, l’uomo e la donna di oggi ci interpellano, perché comunichiamo la salvezza che viene da Cristo Maestro, Via Verità e Vita.

Apostolo di…”, cioè apostolo che parla di Cristo. La predicazione di Paolo è tutta incentrata su Gesù. L’evangelizzazione non ha altro contenuto che Cristo. Questo è l’autentico apostolato: non ce n’è un altro. Ricorda ai Corinzi: «Io ritenni infatti di non sapere altro in mezzo a voi se non Gesù Cristo» (1 Corinzi 2,2). Paolo diffonde la buona novella di Gesù Cristo: «Annunciando il regno di Dio e insegnando le cose riguardanti il Signore Gesù Cristo» (Atti 28,31). Sa che gli «è stata concessa questa grazia: annunciare alle genti le imperscrutabili ricchezze di Cristo» (Efesini 3,8).

Afferma don Alberione: «Apostolo è colui che porta Dio nella sua anima e lo irradia attorno a sé… L’Apostolo ha un cuore acceso di amore a Dio e agli uomini; e non può comprimere e soffocare quanto sente e pensa… Egli, al dire di uno scrittore, trasuda Dio da tutti i pori: con le parole, le opere, le preghiere, i gesti, gli atteggiamenti; in pubblico ed in privato; da tutto il suo essere. Vivere di Dio! e dare Dio» (Ut perfectus sit homo Dei, 1960, nn. 277-278). «La missione paolina… si rivolge, usando i mezzi tecnici, in qualche misura a tutti… per portare a tutti il messaggio della salvezza, contenuto nella Bibbia, nella Tradizione, nell’insegnamento della Chiesa» (Ut perfectus sit homo Dei, 1960, nn. 372-373).

«“Compi il tuo dovere di evangelista” (2 Timoteo 4,5). E san Paolo non lo scriveva soltanto a Timoteo, ma lo riferiva a tutti coloro che hanno la missione di evangelizzare il mondo. […] E ognuno può dire: il Signore mi ha mandato ad evangelizzare» (Alle Figlie di San Paolo, 1959).

Afferma Papa Francesco: «Quando si tratta del Vangelo e della missione di evangelizzare, Paolo si entusiasma, esce fuori di sé. Sembra non vedere altro che questa missione che il Signore gli ha affidato. Tutto in lui è dedicato a questo annuncio, e non possiede altro interesse se non il Vangelo. È l’amore di Paolo, l’interesse di Paolo, il mestiere di Paolo: annunciare. Arriva perfino a dire: “Cristo non mi ha mandato a battezzare, ma ad annunciare il Vangelo” (1 Corinzi 1,17). Paolo interpreta tutta la sua esistenza come una chiamata a evangelizzare, a far conoscere il messaggio di Cristo, a far conoscere il Vangelo. […] L’Apostolo, però, non può rischiare che si creino compromessi su un terreno così decisivo. Il Vangelo è uno solo […] Su questo punto l’Apostolo non lascia spazio alla trattativa: non si può negoziare. Con la verità del Vangelo non si può negoziare» (Udienza, 4 agosto 2021).

Anche don Alberione, fin dagli inizi, distingue tra “stampa buona” e “apostolato della buona stampa”. Scrive: «Fra questa Stampa Buona e l’Apostolato della Stampa vi è ancora un abisso. L’Apostolato della Stampa è ben altra cosa, immensamente superiore. Tale apostolato è la diffusione del pensiero, della morale, della civiltà cristiana, del Vangelo in una parola, con il mezzo della Stampa» (Unione Cooperatori Buona Stampa, 20 gennaio 1926).

Ed ecco una sua preghiera: «Gesù Maestro… mi avete mandato a predicare… Mi avete dato per protettore un grande predicatore: San Paolo. Mi avete consegnato belle anime… Mi avete fornito mezzi vari e potenti: parola, stampa, cinema, radio. Ho compiuto bene il vostro mandato?» (Paolo apostolo, 1947, n. 27).

Per essere fedeli a don Alberione, occorre dunque avere – come san Paolo – una profonda esperienza di Cristo. Sarà questa a renderci apostoli evangelizzatori nella cultura della comunicazione.

E voglio concludere con le parole di Papa Francesco (Giubileo della vita consacrata, 1° febbraio 2016): «Cari fratelli… nel vostro apostolato quotidiano, non lasciatevi condizionare dall’età o dal numero. Ciò che più conta è la capacità di ripetere il “sì” iniziale alla chiamata di Gesù che continua a farsi sentire, in maniera sempre nuova, in ogni stagione della vita… Vivendo così, avrete nel cuore la gioia, segno distintivo dei seguaci di Gesù e a maggior ragione dei consacrati. E la vostra vita sarà attraente per tante e tanti, a gloria di Dio e per la bellezza della Sposa di Cristo, la Chiesa».

Don Gerardo Curto