San Paolo: non una conversione, ma una vocazione

Modificare ufficialmente la denominazione “Festa della Conversione di San Paolo” in “Festa della Vocazione di San Paolo”: è l’oggetto della petizione che il Segretariato Attività Ecumeniche ha indirizzato nel giugno 2022 al Prefetto del Dicastero per il Culto divino e la Disciplina dei Sacramenti della Chiesa cattolica, monsignor Arthur Roche, e al segretario, monsignor Vittorio Francesco Viola. La richiesta, approvata dall’Assemblea dell’Associazione Interconfessionale per l’Ecumenismo e il Dialogo a partire dal dialogo ebraico-cristiano riunita a Firenze il 24 aprile 2022, è stata anche sottoscritta da 164 firmatari tra vescovi, teologi, liturgisti, biblisti, studiosi, presbiteri, religiosi; e da persone di confessione protestante e di fede ebraica.

La domanda di modifica nasce dall’osservazione delle fonti neotestamentarie: quella di Paolo non è, come spesso invece è considerata, una conversione, cioè il passaggio da una fede a un’altra; si tratta piuttosto di vocazione, la tensione a vivere una modalità della stessa fede.

Nelle sue Lettere, Paolo non parla mai di conversione. Descrive la propria esperienza sulla via di Damasco come vocazione, una chiamata ad essere apostolo delle genti: “Dio, che mi scelse fin dal seno di mia madre e mi chiamò per la sua grazia, si compiacque di rivelare in me il Figlio suo perché lo annunciassi in mezzo alle genti” (Galati 1,15).

L’evento è descritto esplicitamente negli Atti degli Apostoli (9,1-9): «Saulo, spirando ancora minacce e stragi contro i discepoli del Signore, si presentò al sommo sacerdote e gli chiese lettere per le sinagoghe di Damasco, al fine di essere autorizzato a condurre in catene a Gerusalemme tutti quelli che avesse trovato, uomini e donne, appartenenti a questa Via. E avvenne che, mentre era in viaggio e stava per avvicinarsi a Damasco, all’improvviso lo avvolse una luce dal cielo e, cadendo a terra, udì una voce che gli diceva: “Saulo, Saulo, perché mi perseguiti?”. Rispose: “Chi sei, o Signore?”. Ed egli: “Io sono Gesù, che tu perseguiti! Ma tu àlzati ed entra nella città e ti sarà detto ciò che devi fare”. Gli uomini che facevano il cammino con lui si erano fermati ammutoliti, sentendo la voce, ma non vedendo nessuno. Saulo allora si alzò da terra ma, aperti gli occhi, non vedeva nulla. Così, guidandolo per mano, lo condussero a Damasco. Per tre giorni rimase cieco e non prese né cibo né bevanda».

L’episodio è raccontato nuovamente dallo stesso Paolo, con lievi variazioni, una prima volta sia al termine del tentativo di linciaggio a Gerusalemme: «Mentre ero in viaggio e mi stavo avvicinando a Damasco, verso mezzogiorno, all’improvviso una grande luce dal cielo sfolgorò attorno a me; caddi a terra e sentii una voce che mi diceva: “Saulo, Saulo, perché mi perseguiti?”. Io risposi: “Chi sei, o Signore?”. Mi disse: “Io sono Gesù il Nazareno, che tu perseguiti”. Quelli che erano con me videro la luce, ma non udirono la voce di colui che mi parlava. Io dissi allora: “Che devo fare, Signore?”. E il Signore mi disse: “Àlzati e prosegui verso Damasco; là ti verrà detto tutto quello che è stabilito che tu faccia”. E poiché non ci vedevo più, a causa del fulgore di quella luce, guidato per mano dai miei compagni giunsi a Damasco» (Atti 22,6-11); e una seconda volta durante la comparizione a Cesarea davanti al governatore Porcio Festo e al re Marco Giulio Agrippa II: «Mentre stavo andando a Damasco con il potere e l’autorizzazione dei capi dei sacerdoti, verso mezzogiorno vidi sulla strada, o re, una luce dal cielo, più splendente del sole, che avvolse me e i miei compagni di viaggio. Tutti cademmo a terra e io udii una voce che mi diceva in lingua ebraica: “Saulo, Saulo, perché mi perseguiti? È duro per te rivoltarti contro il pungolo”. E io dissi: “Chi sei, o Signore?”. E il Signore rispose: “Io sono Gesù, che tu perseguiti. Ma ora àlzati e sta’ in piedi; io ti sono apparso infatti per costituirti ministro e testimone di quelle cose che hai visto di me e di quelle per cui ti apparirò. Ti libererò dal popolo e dalle nazioni, a cui ti mando per aprire i loro occhi, perché si convertano dalle tenebre alla luce e dal potere di Satana a Dio, e ottengano il perdono dei peccati e l’eredità, in mezzo a coloro che sono stati santificati per la fede in me”» (Atti 26,12-18).

Lo stesso qualificarsi di Paolo come “apostolo delle genti” (Romani 11,13) presuppone il mantenimento della sua appartenenza ebraica. Le “genti” sono infatti tali solo rispetto al popolo d’Israele. Paolo apostolo è un ebreo che annuncia Gesù Cristo a non ebrei.

Lui stesso si presenta così: «circonciso all’età di otto giorni, della stirpe d’Israele, della tribù di Beniamino, Ebreo figlio di Ebrei; quanto alla Legge, fariseo; quanto allo zelo, persecutore della Chiesa; quanto alla giustizia che deriva dall’osservanza della Legge, irreprensibile» (Filippesi 3,5-6). E, in altra occasione, ribadisce: «in quello in cui qualcuno osa vantarsi – lo dico da stolto – oso vantarmi anch’io. Sono Ebrei? Anch’io! Sono Israeliti? Anch’io! Sono stirpe di Abramo? Anch’io!» (2 Corinzi 11,21-22).

L’espressione “Conversione di San Paolo” risulta perciò impropria in base alla testimonianza dello stesso Paolo. Inoltre essa può ingenerare l’errata convinzione che Paolo si sia convertito in quanto ha cessato di essere ebreo per diventare cristiano. Non è così; in seguito a una chiamata, che ricorda quella dei profeti (specie Geremia e Isaia), Paolo è diventato non già un cristiano, bensì un ebreo credente in Gesù Cristo.

La dicitura “conversione sulla via di Damasco” si basa su una errata interpretazione dell’avvenimento, e fa ingiustizia a Paolo. Infatti, se per qualsiasi persona la vocazione alla fede cristiana può includere anche la conversione, nel caso dell’apostolo Paolo questo non avviene, in quanto è un ebreo, e quindi appartiene già al popolo di Dio. Egli ha fede nel Dio unico di Israele, come dirà al governatore Felice: «Questo ti dichiaro: io adoro il Dio dei miei padri, seguendo quella Via che chiamano setta, credendo in tutto ciò che è conforme alla Legge e sta scritto nei Profeti» (Atti 24,14).

Nella tradizione biblica, Dio ha scelto il popolo di Israele in vista della salvezza di tutte le genti. Si è rivelato, in particolare, mediante la Torah e la missione dei profeti. Fino all’annuncio di un Messia, che sarà Gesù di Nazaret, il figlio di Dio, inviato per la salvezza di Israele e di tutti i popoli. Ma la sua gente, che pure lo attendeva, non lo riconosce, lo rifiuta, lo manda a morte. Solo una parte di giudei credettero in lui. Questa loro fede, ovviamente, non può dirsi una “conversione”: non indica il passaggio dal male al bene, dall’idolatria al vero Dio. Infatti, un ebreo che riconosce il Messia, rimane rivolto al medesimo Dio di prima; la sua nuova fede è la pienezza del proprio itinerario precedente, non un cambiamento di religione. È la fede veterotestamentaria giunta al suo compimento nell’atto di accogliere il Messia promesso.

Tutto questo vale per Paolo. Nell’evento di Damasco la chiamata del Signore Gesù è rivolta a un fariseo osservante, “ebreo figlio di ebrei”, che vive l’orgoglio del popolo eletto e la fierezza per il dono della Torah.

Paolo, divenuto apostolo di Cristo, è il giudeo di prima e di sempre, un credente aperto alla Parola che Dio ha rivolto a Israele e che ora irrompe nella sua storia personale. Tale ascolto lo conduce all’evidenza che Gesù è il Messia, è il Signore; e manda proprio lui, Paolo, ad annunciare che le promesse fatte ad Abramo sono ora estese a tutti gli uomini nella persona del Signore Gesù.