Raccontare Dio nella cultura della comunicazione

Festa organizzata in una grande scuola di San Pietroburgo, in Russia. È sera. Grande afflusso di studenti. Partecipa anche Fëdor Michajlovič Dostoevskij. Quando entra, le danze si arrestano. La musica, dopo una breve esitazione, si interrompe. Le giovani coppie gli si avvicinano. E lo pregano di parlargli di Dio. E così, sino all’alba, in una sala da ballo, Dostoevskij commenta la verità di Cristo.

Anche a noi, oggi, ci viene chiesto di raccontare Dio, di renderlo visibile, attuale. Ma, troppo spesso, ci troviamo a rispondere attraverso astrazioni e formule precostituite. Rischiamo di perdere di vista Dio e di non poterlo più raccontare a chi ci chiede di renderlo visibile.

Abbiamo annoiato il mondo, noi che dobbiamo svegliarlo e salvarlo.

“Non c’è alcun posto in cui i volti sono così inespressivi come in chiesa durante le prediche”, osservava François Mauriac. Ma come è possibile annoiare con Dio? È la domanda insita nella Evangelii Nuntiandi di Paolo VI. Due alternative: o la Parola di Dio ha perso forza storica, o gli apostoli si sono persi per strada.

“Che ne è oggi di questa energia nascosta della buona novella, capace di colpire profondamente la coscienza dell’uomo?… La Chiesa si sente o no più adatta ad annunziare il Vangelo e a inserirlo nel cuore dell’uomo con convinzione, libertà di spirito ed efficacia?”. Eppure “la presentazione del messaggio evangelico non è per la Chiesa un contributo facoltativo: è il dovere che le incombe per mandato del Signore Gesù, affinché gli uomini possano credere ed essere salvati. Sì, questo messaggio è necessario. È unico. È insostituibile. Non sopporta né indifferenza, né sincretismi, né accomodamenti. È in causa la salvezza degli uomini” (Evangelii Nuntiandi, 4.5).

È in causa la salvezza degli uomini

Oggi è in gioco la salvezza degli uomini. Quali uomini? Quale uomo? Eccone un possibile identikit. Nascita: preferibilmente programmata e in area industrializzata. Genitori: separati. Età: venticinque-quaranta anni. Studi: tecnico-scientifici più specializzazione. Professione: manager. Malattie latenti nella prima giovinezza: nevrosi. Interessi: esteriorità, apparenze (belle macchine, bei vestiti, notorietà, successo, denaro…). Fede: negli interessi. Segni particolari: fascino indiscusso, funzionalità, efficienza, produttività. Malattie incorse intorno ai trenta anni: nevrosi aggravate. Morte: improvvisa, anche se non fisiologica, e sempre in agguato. Causa della morte: cessata funzionalità, cessata efficienza, cessata produttività.

È il profilo, questo, che si può desumere dall’immagine dell’uomo che i media ci presentano. Sarà l’uomo del futuro, ma, in parte, è già l’uomo di oggi. Quest’uomo, ormai definito post-moderno, si è lasciato alle spalle il reale per assumere su di sé l’apparente. Ormai privo dell’aderenza al reale, tutto gli è possibile. Il vero è ciò che nelle sue mani funziona,il bene è ciò che gli piace. Tuttavia, anche quest’uomo ha bisogno di dire una preghiera. Ma non sa a chi dirla, una preghiera.

Nel nostro identikit manca la voce “Dio”. E al nostro uomo manca la voce di Dio. Non lo sente né lo vuole vedere, perché gliene è stata trasmessa un’immagine deviante, un’idea deformata o disgustosamente dolciastra. Fin da piccolo, quest’uomo non ha fatto che chiedere: “Raccontami Dio”. E ricevere spesso risposte sbagliate.

Dall’insegnare Dio al raccontare Dio.

Da che cosa si è fatto un’idea di Dio, l’uomo post-moderno? Dalle formule imparate a memoria, dai film e dai programmi etichettati come religiosi, da ciò che viene detto o mostrato su uomini e donne di Chiesa. Notizie raccogliticce, nozioni superficiali, dati insignificanti e spesso inesatti. Ma Dio non è una teoria. Dio è una persona e lo si può incontrare. Perciò lo si può anche mostrare e raccontare. Glielo chiesero anche loro, gli apostoli (Giovanni 14,8.9): “Signore, mostraci il Padre”. E la risposta fu chiara: “Chi ha visto me, ha visto il Padre”. Dio è visibile perché è reale. “Invece, noi, che dobbiamo dare agli uomini la buona notizia della loro salvezza, noi architettiamo le belle chiacchiere, i vaniloqui oziosi, i discorsi inetti, le retoriche grazie, le tediose tiritere… Se noi viviamo di Dio, noi parliamo di Dio: ecco tutto. E chi vive di Dio, ne parla in termini di vita” (Giuseppe De Luca).

Ma chi parla di più, in termini di vita, oggi? L’evangelizzatore o la tivù accesa? Ma poi, questo evangelizzatore, conosce Dio? Lo conosce personalmente? O conosce dei libri su di lui? Forse, è tempo di riconoscere che i nostri rapporti con Dio non sono così chiari da poterli raccontare. Diceva giustamente il Beato Angelico: “Per dipingere il Cristo è necessario vivere col Cristo”. Perciò l’evangelizzatore, più che conoscere o meno Dio, deve esserne l’immagine terrena. Diventare la notizia che annuncia.

Ecco, pertanto, un possibile e veloce identikit dell’evangelizzatore. Nascita: preordinata da Dio. Paternità e maternità: inessenziali. Età: anch’essa inessenziale. Professione: missione e servizio. Prerogative: consacrazione. Segni particolari: trasparenza al messaggio, identità con la parola e responsabilità nei suoi confronti. Studi: fondamentali, ma non indispensabili. Destinatari: tutti e ciascuno individualmente. Interessi: rendere testimonianza alla verità. Strategia: del tipo “full immersion” nel presente.

La “full immersion” nel presente.

Questo è il mondo in cui siamo immersi. Un mondo accelerato e da fantascienza, impossibile dimenticarlo. Un mondo abitato da uomini nuovi, potenziali dominatori e creatori di una natura provocata anche contro le sue stesse leggi. In questo mondo, questo è l’uomo. Un uomo anch’egli accelerato da simili possibilità tecniche, col respiro sempre più breve, affetto da stress e nevrosi, e con un nuovo modo di pensare. È un uomo accelerato anche dal punto di vista degli spostamenti e dei contatti interpersonali, capace solo di soste artificiali. Un uomo senza più barriere e in grado di fare tutte le possibili esperienze, reali o fittizie che siano; ma proprio per questo è un uomo che non sa più fermarsi ad approfondire niente.

Quest’uomo nomade non si ferma in un nucleo familiare e tanto meno ad ascoltare una parola o un discorso. Egli è costretto a un nuovo linguaggio, fatto di impressioni, sensazioni, emozioni. Davanti al televisore, quest’uomo manovra freneticamente il telecomando. Quale sarà l’immagine decisiva capace di soddisfare la sua tensione emotiva e la sua sete di conoscenza?

Poco per volta cambierà la sua considerazione di se stesso, e cambieranno anche il suo modo di pensare, la gerarchia dei suoi valori, le sue esigenze, i suoi desideri, il suo stile di vita. Non si limiterà all’essenziale, ma pretenderà il superfluo.

È lo strapotere della tecnologia, con tutti i suoi derivati, che perpetua l’antica presunzione instillata dal serpente: “Diventerete come Dio”.

Ma se il danno viene dal suo strapotere, la salvezza può venire dalla sua ricchezza.

La ricchezza che salva.

L’attivismo può affascinare, ma una osservazione più attenta ne smaschera le carenze. Carenze che, del resto, a una osservazione ancora più attenta, non risultano neanche più tali, ma germi per possibili sviluppi futuri.

In concreto, quale è stata la distrazione tecnologica di questi tempi? Presi a programmare computer, debellare malattie, progettare satelliti, ideare programmi televisivi, pianificare l’economia e costruire il proprio benessere, gli uomini hanno scoperto di potersi sostituire a Dio, in molti casi. Tant’è vero che, in passato, per una malattia o per il buon esito del raccolto, ci si raccomandava al Padre. Oggi, per la malattia ci si rivolge al primario e per il raccolto alla chimica e all’agraria. Dio non serve: così sembra. Tutti i problemi sono stati risolti e gli uomini, sempre più impegnati a considerare le cose che li circondano, non riescono a vedere o intravedere ciò che sta oltre, ovvero l’essenza della realtà.

Illusione tecnologica! La distrazione non consiste, perciò, nel non sentire più il bisogno di Dio; piuttosto nel presumere di poterlo eliminare o di potersi sostituire a lui.

Ma quale Dio gli uomini hanno, di fatto, eliminato? Il Dio magico, del pronto intervento, benevolo e vegliardo, che si affaccia tra le nubi… Era evidente che questo Dio-idolo sparisse. Non era il suo volto a mostrarsi, ma una maschera di utilità, o quanto meno uno dei suoi aspetti, forse neanche il più importante.

A ben vedere, il meraviglioso potenziale tecnologico, ancora e sempre disponibile, ci rende un grande servizio: la possibilità di riscoprire il vero volto di Dio, e di rendere al Padre il posto che gli compete. Possiamo ritrovare, così, e far ritrovare, il Dio dell’alleanza.

Non rivolgendoci più a Dio perché guarisca le nostre malattie o risolva i nostri problemi economici, torniamo a invocarlo perché sazi la nostra fame di assoluto e di verità.

A ben vedere, quindi, la tecnologia ci ha restituito il Dio vero. Che, per distrazione, credevamo da essa esautorato.

Un altro aspetto. Questa società delle famiglie disgregate, degli uomini nomadi, della connessione continua, avidi di contatti reciproci, frequentatori di stadi e locali affollati, ha inventato una nuova solitudine. Anche la cosiddetta specializzazione, nel lavoro, isola. Ma forse si tratta di un’altra distrazione. La società dell’anonimato è, anche, la società della solidarietà sovranazionale, della famiglia aperta, degli scambi culturali. I nostri cellulari, pieni di numeri telefonici e di indirizzi mail, ci rimandano a una folla indistinta, ma anche a tanti singoli individui, in ognuno dei quali si ripete il miracolo dell’unicità della persona.

È vero, il sapere e la società assomigliano sempre più, oggi, a un grande mosaico fatto di migliaia di tessere, più che a un affresco unitario. Tuttavia, il quadro che ne risulta è migliore di quanto si potrebbe pensare a prima vista: ogni singola tessera “significa” in relazione alle altre, ha il suo posto in quanto ce l’hanno tutte le altre, e le altre – e l’insieme – hanno significato pieno, proprio grazie a ogni singola tessera.

Questo significa che la stessa tecnologia, la stessa parcellizzazione del sapere, ci chiamano, oggi, all’unità, a una nuova comunicazione. E questa fraternità ritrovata è la base per recuperare la visione dell’unico Padre che è Dio. “Uno solo è il Padre vostro… e voi siete tutti fratelli” (cfr Matteo 23,8-10).

Imparare di nuovo a guardare.

Ricominciare a guardarci per imparare a guardare Dio, per reimparare a guardare. Ma che cosa guarda l’uomo post-moderno? La tivù, per esempio, che ha universalizzato e schematizzato i gusti.

L’immagine ha catturato la sua personalità, i suoi sensi, messo kappaò la sua riflessione. Ma forse non c’è da preoccuparsi. Contrariamente a quello che si potrebbe pensare, il non riflettere forse non è una disgrazia. La potenza dell’immagine conduce l’uomo a una continua eccitazione emotiva; la sua ricchezza, in compenso, rende possibile la contemplazione, il godimento profondo della visione. Se subentra l’evidenza, che parla da sé, si possono aprire le porte della partecipazione, della comunicazione con gli altri e con il mondo. Abbandonandosi alla forza dell’immagine, l’uomo può allora sperimentare la rivoluzionaria novità del vivere l’altro (persona o mondo che sia). Qualcosa in più rispetto al vivere con qualcun altro o per qualcun altro. Qualcosa in più rispetto al vivere in qualche posto o per qualche scopo.

Ecco, allora, il modo più semplice per raccontare Dio. Vivere Dio. E, insieme, vivere il prossimo che ce ne domanda. A metà fra queste due esperienze decisive, sarà impossibile per noi non trovare le parole.

Le parole che non raccontano.

Proviamo a prendere o a riprendere in mano un manuale di storia per le scuole medie. Una successione di fatti, dal più remoto al più recente. Così si studiava e forse ancora si studia. Capitoli e concetti. Per secoli, la storia l’abbiamo conosciuta così, come una linea retta. Frazionandola continuamente in tanti segmenti. Pochi sguardi d’insieme, per lo più dovuti alla genialità di qualche insegnante. Oggi, va subentrando il sistema cosiddetto modulare. Apprendere “fotografando” singoli episodi. Il nuovo manuale può essere aperto in qualsiasi punto. Non c’è più bisogno di studiarlo dall’inizio per avere un quadro, grosso modo completo, della disciplina.

Nuovi metodi, sintomi di esigenze nuove. Esigenze nate, per l’appunto, dal mutato panorama della comunicazione. A voler ben vedere, esigenze nate con i mass media (cinema, radio, stampa di massa, televisione). Proprio i mass media hanno inventato la seconda rivoluzione copernicana della storia.

Un tempo, al centro dell’universo c’era il pensiero. Quello in base al quale venivano scritti i libri di storia iniziando con l’inizio e finendo con la fine. I mass media hanno ora messo, al centro dell’universo, l’esperienza sensoriale (vera o fittizia che sia) di una realtà.

Per secoli, abbiamo sezionato cadaveri. Cadaveri di sistemi, di metafisiche, di dottrine e di ideologie. Per paradosso, questo sezionare cadaveri ha contaminato la nostra stessa personalità. Dal punto di vista della comunicazione ci troviamo a sezionarci, a parlarci addosso, a psicoanalizzarci.

Questo pesante bagaglio culturale, questa predisposizione a concettualizzare e a razionalizzare, ci impedisce di godere appieno della ricchezza della comunicazione.

Di questo atteggiamento si è impregnato, nei secoli, anche il cristianesimo che, oltre a una sua manifestazione autentica e vera, nella storia si è spesso incarnato in culture contingenti, assumendone l’abito esteriore e la struttura interna. La vita cristiana “pretesa autentica” è diventata, nel frattempo, la vita di riflessione e di meditazione per eccellenza. Per molti, ancora oggi, soprannaturale e astratto sono la stessa cosa. Del tutto dimenticata la domanda evangelica: “Maestro, dove abiti?”. E pure del tutto dimenticata la risposta: “Vieni e vedi”.

Nessuno accetta ciò che gli è estraneo.

“Vieni e vedi”: è un invito inequivocabile. Gesù insiste sul vedere, cioè sul coinvolgimento dei sensi e sulla partecipazione personale. Vuole che si vada con lui. Il suo messaggio non potrebbe essere più esplicito e coinvolgente. Egli chiama persone, non intelletti. Particolare trascurato fino ad oggi.

La predica dell’inviato di Dio è diventata invece sinonimo di discorso noioso, pedante, a cui bisogna sottomettersi supinamente. Non li chiama a vedere, indottrina. C’è, oltre a questo, una certa inflazione di annunci e di annunciatori, che rende ancora più difficile la vita dell’inviato di Dio. Oltretutto, gli altri riescono a essere anche molto più accattivanti. Gli uomini, perciò, sono diventati smaliziati, a volte insensibili e diffidenti. Per certi versi vedono troppo. Bisogna insegnare loro a vedere anche “oltre”.

Nonostante ciò, il predicatore riesce sempre meno a farsi capire e a convincere sul piano della comunicazione. Basterebbe ripensare a quella chiamata di Dio. Alla sua Parola che è vita. Ripensare alla vita. L’inviato di Dio non dovrà che continuare questa chiamata così reale e coinvolgente.

Come? Entrando in sintonia con i tempi e con gli uomini. Nel linguaggio, adeguandosi a quello che parla l’uomo d’oggi. Nel contesto, tenendo presente il significato che immagini e parole usate hanno nella mentalità della gente. E nel contenuto, tenendo conto del valore emotivo (simpatia o antipatia, accettazione o rifiuto) che la gente attribuisce a certi temi.

In pratica: impossibile prescindere da fatti come divorzio, aborto, potere, denaro… Li incontriamo necessariamente nel nostro cammino. Dobbiamo giocoforza sintonizzarci con essi. Ma come, se il più delle volte, quello che la gente accetta, noi vorremmo che lo rifiutasse? Indubbiamente siamo di fronte a una frattura. La stessa che Dio ha assunto nel farsi uomo. Egli è entrato nella dimensione storica. Come Dio, dobbiamo allora incarnarci nella storia, ci piaccia o no. E questo è il primo passo. Quindi, salire sulla croce. Valorizzare tutto ciò che nel mondo c’è di buono e indicare la possibile alternativa a valori o pseudovalori che la gente insegue. Momento, questo, di grande rischio e di grande responsabilità.

Parlare questa lingua può voler dire: risultare scomodi e fastidiosi. In ultima analisi, essere mandati in croce. Ma sarà proprio questa croce, ancora una volta consumata fino in fondo, a portare a compimento la parola di Dio: risurrezione che rigenera, che crea l’uomo nuovo, finalmente fratello di fratelli.

Guarda tu Dio e raccontamelo”.

Per rispondere, dunque, all’invito “Guarda tu Dio e raccontamelo”, dovremo dimenticare lo schema classico del riferire qualcosa a qualcuno (storia, notizia, o barzelletta che sia). Dio non è una dottrina, ma vita. Non ci resta che sperimentarla e risperimentarla ogni giorno, presentandola così com’è.

Essere intermediari di vita vuol dire condurre l’altro a sperimentarla, a sua volta, in prima persona. Presenteremo, così, una persona a un’Altra Persona. Sarà poi Dio a raccontarsi da sé. Noi non faremo altro che insegnare ad ascoltare e a vedere la storia di Dio nella storia umana di tutti i giorni.

Raccontare Dio, cioè mostrare i segni che egli lascia al suo passaggio. Vuol dire mostrare la vita e la salvezza di cui questi segni sono pieni. Non sarà sufficiente avere con sé la Bibbia e ripeterne le frasi; né domandarsi come presentarle meglio. Oltre il “come”, più o meno moderno, si tratta di sapere che “cosa” annunciare. Sarà necessaria, perciò, la Bibbia, certamente, ma insieme l’attenzione al quotidiano. Più che necessario sarà metterli in rapporto. Il quotidiano è la narrazione di ciò che avviene nell’umanità, momento per momento. La Bibbia è la spiegazione di cosa è questa umanità che Dio ama.

“Guarda tu Dio e raccontamelo”. Non c’è che una risposta: “Vieni e vedi “.

Walter Lobina