La conversione di Paolo [3]

Quale Dio serviamo e annunciamo?

Incontro tenuto nella Comunità Paolina “Primo Maestro” di Roma, in occasione della festa della Conversione di san Paolo, da don Francesco Cosentino – Docente di Teologia Fondamentale presso la Pontificia Università Gregoriana e Officiale presso la Segreteria di Stato Vaticana. [TERZA PARTE]

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L’esperienza della cecità per poter vedere

Paolo si lascia trasformare, riceve occhi nuovi, cambia vita. Nell’esperienza della sua conversione c’è perciò un itinerario di fede valido per tutti noi. Non si tratta di una conversione morale (in fondo era un fariseo, osservante della legge), né di una conversione religiosa (in fondo era un uomo religioso e non un ateo). Si tratta di una trasformazione radicale di vita che accade con l’incontro con Gesù.

E la prima guarigione che questa trasformazione comporta riguarda la sua immaginazione spirituale: fino ad allora ha avuto un’immagine di Dio, un’immagine della religione giudaica, della legge, del rapporto tra legge e grazia, anche un’immagine di un Dio che autorizza persecuzioni e uccisioni per chi si oppone a Lui; ora la luce abissale di Gesù sulla via di Damasco e l’incontro con Lui, trasformano per sempre questa immagine di Dio ed essa viene fissata in Gesù Cristo, nella sua passione per noi, nella sua grazia, nella morte di Croce che manifesta l’amore gratuito di Dio.

Ecco perché l’episodio accaduto sulla via di Damasco è fondamentale, è il più importante, decisivo, paradigmatico; scrive il card. Martini: “se domandassimo a Paolo che si prepara a subire il martirio, quale fatto sia stato determinante per la sua vita, non c’è dubbio che ci risponderebbe: l’incontro di Damasco. Tutta la vita dell’Apostolo è segnata da quell’evento. È difficile per noi capirlo, perché, in realtà, Paolo stesso comprende solo al momento della morte che cosa abbia significato per lui quell’episodio. Probabilmente anche noi capiremo che cosa è stato il dono del battesimo e dell’ordinazione sacerdotale soltanto al termine del nostro cammino. D’altra parte, se partire da Damasco è difficile, perché è l’episodio che racchiude tutto e che si può comprendere solo nell’esame delle conversioni successive, tuttavia è certo che per Paolo tutto comincia da lì. Prima era tutto diverso; dopo tutto sarà diverso”.

Ciò è evidente nel primo racconto della conversione, al capitolo 9 degli Atti degli Apostoli. Sottolineo tre cose sull’incontro di Paolo con Gesù.

  • L’incontro con Gesù è una sfida. È descritto al modo delle grandi visioni bibliche, come quelle vissute da Giacobbe, da Ezechiele o da Daniele, in una cornice avvolta dalla luce. Il bagliore di quella luce lo fa cadere a terra (non da cavallo come l’iconografia amerà poi immaginare); è un bel particolare: la luce lo fa inciampare, come per “ostacolare” il cammino che sta facendo. Molto importante è comprendere che nel processo di conversione, spesso il Signore ci fa luce e ci dona la Sua Parola non per consolarci, coccolarci, accarezzarci, ma per creare un inciampo che ci disturbi, che arresti la corsa abitudinaria che portiamo avanti ogni giorno, che ci costringa a fermarci, a guardare meglio, a rivedere. A noi sembra di incespicare e non procedere più spediti come prima ed essere costretti a fermarci, ma Dio in quel modo ci sta parlando e vuole lavorarci.
  • L’incontro con Gesù trasforma l’immagine di Dio. Ciò è molto evidente nella Lettera ai Filippesi in cui Paolo parla di sé e dice “circonciso l’ottavo giorno, della stirpe d’Israele, della tribù di Beniamino, ebreo da Ebrei, fariseo quanto alla legge; quanto a zelo, persecutore della Chiesa; irreprensibile quanto alla giustizia che deriva dall’osservanza della legge. Ma quello che poteva essere per me un guadagno, l’ho considerato una perdita a motivo di Cristo” (Filippesi 3,5-7). Da circonciso appartenente al popolo eletto si sentiva sicuro di sé; era nella legge e viveva uno zelo così rigoroso e irreprensibile da essere diventato fondamentalista e quindi violento. E – attenzione – è tutto questo che lascia, che considera spazzatura, quando trova Cristo. Allora, come afferma Martini, il dramma di Paolo è molto sottile e spesso è simile al nostro, che magari non dobbiamo convertirci da cose chissà quanto grandi e gravi, ma dobbiamo sempre convertirci da quelle convinzioni, da quelle sicurezze religiose, da quelle immagini di Dio, di Chiesa e di fede, che in realtà ci impediscono di incontrare Cristo e ci rendono addirittura, senza volerlo, suoi persecutori. Paolo cioè sta dicendo che era così irreprensibile nell’osservanza religiosa, da essere diventato un bestemmiatore e un violento paradossalmente per “difendere” Dio. Ciò che deve perdere e lasciare e considerare spazzatura è proprio questo Dio che vuole difendere a tutti i costi, la propria idea di Dio, la propria immagine di Dio, la propria religiosità. Scrive Martini: “Il dramma di Paolo è un dramma sottile, difficile, quale lo può vivere un uomo profondamente religioso e minacciava di diventare distorsione radicale dell’immagine di Dio in lui”. L’incontro con Gesù lo porta a staccarsi da tutto questo, a lasciarlo perdere, a cambiare sguardo su Dio e, di conseguenza, anche su quei fratelli che fino ad allora aveva perseguitato. Dunque, sulla via di Damasco c’è una rivelazione del volto di Dio, una illuminazione della vita di Paolo da parte di Dio. Rivelazione e illuminazione sono termini più corretti di conversione.
  • L’incontro con Gesù illumina, ma attraverso la cecità. A contatto con la luce del Cristo, Paolo rimane accecato e, da Anania, gli si aprono gli occhi solo dopo tre giorni. L’allusione è chiara: quella di Paolo, nell’incontro con Cristo, è una discesa nella morte per risorgere a una vita nuova. Tanto più che il racconto dice che Paolo viene battezzato e, in quel momento, gli si aprono gli occhi e “si alza”: il verbo usato, “anastàs”, è il verbo della risurrezione di Cristo. Dopo tre giorni di oscurità, come furono quelli di Gesù nel sepolcro, Paolo rinasce alla luce, alla nuova vita. Se la cecità nella Scrittura può essere il simbolo di quell’oscurità proveniente dal peccato oppure indica una certa impossibilità o ignoranza nell’accedere al mistero di Dio – ai ciechi che Gesù guarisce era impedito, Zabulon e Neftali sono città immerse nelle tenebre – nel caso di Paolo si può ravvisare un altro significato, che ci rimanda anche a quanto il Signore dice a Mosè: nessuno può vedere il mio volto (luminoso) e restare in vita. Qui si tratta di essere “accecati” per la troppa luce, per lo splendore che il mistero di Dio emana. È una luce che rischiara così profondamente, da farci vedere con più chiarezza le tenebre che ci abitano: chi si avvicina a Dio vede ancora di più la propria fragilità e le proprie oscurità, proprio perché illuminato dalla luce di Dio. Ma, volendo entrare ancora più in profondità, possiamo anche dire che per risorgere, per aprirsi alla luce che è Cristo, per accogliere la sua nuova vita, è prima necessario morire a quello che Paolo stesso chiamerà “l’uomo vecchio”; è necessario anche far morire l’immagine che abbiamo di Dio, per aprirci al Dio vivo e vero che è sempre oltre le nostre rappresentazioni parziali e talvolta false. È proprio quando Paolo non vede più nulla che allora può aprirsi alla visione del vero Dio, Padre di Gesù Cristo. Fece l’esperienza di una vera e propria “morte”, perché dovevano essere oscurate e messe a morte tutte quelle immagini di Dio, idee sacrali e sicurezze religiose che in realtà lo avevano trasformato in un persecutore.

Ratzinger ha una meditazione importante sul tema: solo attraverso il fallimento del Venerdì santo, solo attraverso il silenzio di morte del Sabato santo, i discepoli poterono essere portati alla comprensione di ciò che era veramente Gesù e di ciò che il suo messaggio stava a significare in realtà. Dio doveva morire per essi perché potesse realmente vivere in essi. L’immagine che si erano formata di Dio, nella quale avevano tentato di costringerlo, doveva essere distrutta perché essi attraverso le macerie della casa diroccata potessero vedere il cielo, lui stesso, che rimane sempre l’infinitamente più grande. Noi abbiamo bisogno del silenzio di Dio per sperimentare nuovamente l’abisso della sua grandezza e l’abisso del nostro nulla che verrebbe a spalancarsi se non ci fosse lui (3).

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(3) M. P. Gallagher, La poesia umana della fede, Cinisello Balsamo, Milano, 2004, 72-73.